domenica 26 febbraio 2012

Bollettino Delle Emozioni 3. (Al bar da Gino)




Erano le due o forse le tre del pomeriggio di un domenica pigra e silenziosa e me ne stavo a cazzeggiare sbracato sul divano mentre la zia Amalia dormiva, russando sulla sua poltrona della salute, accucciata in un plaid a quadri rossi  e neri. Mi ero stappato da poco una birra, ci si consola come si può, e stavo ascoltando in cuffia Peggy – O, tratta dal Dave’s Picks Vol 1 dei Grateful Dead, che è un cofanetto in edizione limitata a 12.000 copie, composto da tre cd avvolti in una confezione extra lusso. Sarò sincero, l’ho trafugato ma non vi dico dove, mica ho lo stipendio milionario dei nostri ministri, burocrati fasciiiiinooosi. Di tanto in tanto, mi vien voglia di ascoltare quel freak di Jerry Garcia e il suo errante manipolo di musicanti, magari quando non sono troppo scarburati e la musica viene fuori più concreta e fluente. Come accade, per l’appunto, in questo live.

Dicevo, ero immerso in quella magia onirica, quando sul display del telefonino comparve la busta del messaggio con il nome del mittente “Tonyilpoeta”. Lo aprii e lessi pigramente “passo a prenderti tra dieci minuti. Andiamo da Gino, mi è venuta voglia di una cioccolata calda”. Per rompere i cabasisi Tony era perfetto, che cazzo gli saltava in mente alle due o forse le tre del pomeriggio di una fottuta domenica lo sapeva solo lui e quelle sue strane voglie. Stavo per rispondergli di andarsene a cagare,ma ci ripensai; dopotutto, uscire non era una cattiva idea. Bevvi la birra d’un fiato e mi infilai gli stivali texani in finto rettile, spensi la tele che parlava da sola e che la zia aveva sintonizzato su un programma inutile, condotto da un altrettanto inutile presentatore. Andai in bagno feci un po’ d’acqua e,dopo, senza far rumore, mi apprestai ad uscire da casa. Avevo quasi guadagnato la porta quando ad un tratto sentii urlare, Baaaaart!! Era la zia Amalia in preda ad un attacco isterico, non le risposi neppure, aprii la porta e mi tuffai giù per le scale. Appena fuori dal portone, il poeta sopraggiunse con la sua Opel Corsa grigio topo metallizzato, saltai sull’auto  che era ancora in movimento nell’istante in cui la zia, affacciata sul balcone, inveiva contro di me e Tony, avendo riconosciutone la macchina.

Se la rideva allegramente il signorino, mentre gli raccontavo l’accaduto e ci dirigevamo  da Gino. Sul cd dell’autoradio suonava una certa Catherine McLellan, e siccome Tony si fissa con una canzone, chiacchieravamo col sottofondo continuo di Black Crow. Al poeta piacciono un sacco le voci femminili, al contrario di me che ci vado sempre cauto. A dire il vero, però, quel disco, Silhouette, non era per niente male con quella voce e quel suono riconducibili a Lucinda Williams che è una delle mie cantanti preferite. Vedendomi un tantinello preoccupato per aver lasciato sola la zia con l’attacco isterico, il poeta, che era in vena ironica, mi fece tra il serio e il faceto: “Non preoccuparti , ora le passa, lo sai com’è fatta la vecchia e adesso che sei fuori il Signor Santino” (il mio vicino di casa che voleva sposare la zia da tempo immemore) “avrà modo di consolarla.  I due ganzi si faranno una bella trombatina e al tuo rientro sarà quieta come un angioletto”. Aveva davvero un ottimo humor tutto inglese, quel giorno, il poeta. “Adesso che ne pensi”, continuò distratto,” se passiamo a prendere Ang?”. Nulla in contrario, risposi, ci veniva proprio sulla strada quindi provai a chiamare, ma il suo cellulare squillò a vuoto. “Starà suonando la chitarra e non lo sente squillare” esclamai ad alta voce. Ang è un ragazzo americano, viene da Pittsburg, e si porta dietro una storia difficile. Per sopravvivere fa il professore di lingue in una scuola media cittadina, frequentata da ragazzi stronzetti che non hanno voglia di imparare nulla. Il più delle volte, finite le lezioni, passa la sua giornata da solo nella cantina a provare e riprovare le canzoni di Dylan e dei Felice Brothers, che poi è la stessa cosa. “Chiama ancora, Bart”, mi fa il Kevin Costner dell’Annunziata, come l’aveva battezzato Elsa la sua nuova fiamma. Selezionai nuovamente il numero e il telefono riprese a squillare tre, quattro, cinque, sei, sette volte. Stavo per staccare quando una voce impastata di sonno rispose “yesss”. “Che fai dormi?” gli faccio ridendo. “Ah, sei tu, Uncle Bart”. “Preparati”, imposi,”che stiamo passando a prenderti, sono insieme ad Uncle Tony”. “Ok”,  mi fa di rimando, con il suo accento italo americano che sembra di ascoltare Rocky Roberts quando cantava Stasera mi butto. “Sono già pronto”, mi rispose.

Balla con i lupi ancorò l’auto sotto casa e, dopo neanche cinque minuti d’attesa, Ang fece la sua comparsa. Scompigliato per la fretta di uscire e ancora con la faccia del sonno, era contento di vederci. Mentre ci avviavamo al bar, ci rivelò che stava dormendo profondamente perché si sentiva molto stanco. Quella  mattina si era fatto un lungo giro con la bici che lo aveva letteralmente stroncato. Ci svelò che quando il telefono vibrò e vide sul display il suo nome pensò che stesse sognando e continuò a dormire. Al mio secondo tentativo guardò nuovamente il display che lampeggiò ancora una volta il suo nome. Stretto da un sonno pesante, non riusciva a comprendere come era possibile che fosse lui stesso a chiamarsi. In realtà aveva memorizzato il mio numero di cellulare con il suo nome. Ridemmo grassamente spaparanzandoci sui sedili. Gilda, la rossa, passò proprio mentre stavamo per entrare al bar. Abbigliata di tutto punto, con una mini vertiginosa, mi squadrò salutandomi con un sorriso Durban’s e tirò dritto. Era stata sempre una bella figa, la Gilda, con un debole sin da bambina per il sottoscritto. Ogni tanto, a dire il vero, ci eravamo fatti una montatina, di quelle che non sto qui a raccontarvi nei particolari. L’unica cosa che posso dire che non era per niente male. Anzi, a pensarci, mi viene duro anche adesso. 

Il bar era pieno per tre quarti, “Masi Ferru”(Tommaso Ferro), si stava scaldando al biliardo americano in cui era un vero talento. Lo salutammo e ci rispose di par suo con un cenno del capo. Quell’uomo era davvero scorbutico. ma quasi imbattibile al biliardo. Stava in attesa di qualcuno che volesse scommettere con lui anche se erano rari i frequentatori abituali a sfidarlo. Aspettava paziente qualche babbeo di passaggio che capitava sempre, essendo il bar ubicato su una via abbastanza trafficata. Il più delle volte, però, giocava in trasferta dove non era conosciuto. Masi il pollo se lo cucinava a dovere, facendogli vincere un paio di partite con relativa facilità; poi, quando il grullo pensava che era fatta, lo spennava fino all’ultimo centesimo. Ci sedemmo al tavolino che dava sulla strada e chiamammo Gino per l’ordinazione. Finalmente Tony ebbe la sua cioccolata calda,mentre io ed Ang ci spillammo una birra rossa da tre quarti di litro. Fu a quel punto che Tony con un aria da consumato oratore, alla Vittorio Gassman per intenderci, tirò fuori dalla tasca del cappotto la sua nuova poesia e ce la lesse:


Dalle tue braccia/ e dal tuo seno/  m’hai visto fuggire;/ da una felicità immaginata,/dall’innocente bellezza/ del nostro istante migliore./ Un cupo dolore ti preferivo,/  l’inconsapevole conato d’aggirare/ la giovanile illusione/ che,  adesso che nulla più/ a me si muove,/ quasi,/ vorrei,/ di nuovo,/ cullare./  Ragazza nel sole,/ ora che il tuo volto riappare,/ le tue mani riconquistando/ la loro forma spaziale/ dentro ogni affiorato ricordo,/ il dolore s’accresce/ al suono della tua voce,/ anch’essa risorta/ e che nessuno, mai,/ mi disse che, un giorno,/ sarei tornato a sentire,/ nella tua viva assenza,/ forte,/così.- Suggestioni di Barzin - (Tonyilpoeta) 

Eccolo, un altro caduto nella rete di Barzin, dentro  quelle  note per un amante assente. Un disco che ha la forza di trafiggerti e di esporti ai quattro venti. Pieno zeppo di ballate grigie e secche, come un drappello di  cani randagi. Ma anche di pudore. Dedicate  a tutti quelli che sono annegati nella notte, lottando contro la pioggia e il vento. Perché ci sono cose nascoste che uno pensa di non avere, talmente nascoste che alla fine ci si ritrova vuoti e non si smette di tremare. Ma quelle tracce di sangue che hanno rigato l’anima non si possono raschiare. E nemmeno quel fremito che quello sguardo profondo ha lasciato. Prima che se ne andasse per sempre.

 I’m Lonesome, cantava Ernie Chaffin nel 1957. Guardai fuori la strada e mi persi per un attimo dentro i miei pensieri. Ehi fratello, i pesci piccoli se la prendono sempre nel culo! La voce squillante di Lillo il ferroviere mi fece sobbalzare. Era un uomo distinto e posato, un uomo tutto d’un pezzo. Come me, amava i treni e le storie di quegli uomini che avevano attraversato l’Italia in cerca di fortuna.  Aveva lavorato come cuccettista, per tutta la vita sul treno del Sole,quello che partiva da Palermo alle due del pomeriggio e arrivava a Milano alle dodici del giorno dopo, se tutto andava bene. Tante volte c’ero salito anch’io quando mi spostavo in cerca di lavoro. Me le ricordo ancor nitidamente quelle notti su quei lettini pidocchiosi, stretti e angusti.  Anime intorpidite a faccia in su. Uomini soli gettati nel fondo della notte, fra bagagli grandi come case e puzza di piedi. Uomini in fuga dalla miseria e dalla mediocrità. Eppure, è in quei viaggi che mi sentivo come un vero bluesman e quella comunanza mi rendeva il viaggio meno duro, meno amaro da sopportare. O, forse, in quel tempo mi accompagnava la speranza. Era davvero come vivere in una canzone di Charlie Patton. Osservavo curioso  gli altri viaggiatori appisolati sui sedili, facce sconosciute, sorrisi spenti, occhi sconsolati, che guardavano assorti il paesaggio scorrere dal finestrino opaco per la sporcizia. E quando calava il tramonto eravamo fermi ancora  alla stazione di Napoli Centrale. Allora dalle buste di cartone marrone , tiravamo fuori i panini imbottiti con la mortadella o con il salame, che erano avvolti nella carta stagnola. E dopo, anche le arance sanguinelle e c’era sempre qualcuno  che aveva portato il thermos con il caffè caldo. Passeggeri pronti a dividere tutto quello che avevamo con chi magari non aveva nulla. L’ altruismo dei poveri. Uomini, ragazzi, anziani, volti con cui ho diviso per una notte i sogni e che non ho incrociato mai più. Adesso anche loro fanno parte dei miei fantasmi. Che non sempre sono dei morti. Come lo Springsteen lacerante di  Nebraska.

Al tavolo della briscola, Peppe Triglia si era infervorato uscendo fuori dai gangheri, bestemmiando e gettando le fiches addosso al suo compagno per una mano sbagliata. Ci pensò subito Gino a riportare le cose nella giusta dimensione. Si avvicinò al tavolo e con molta calma gli mise una mano sulla spalla, facendogli segno di andare via. Triglia chiese scusa a tutti e tornò a sedersi. Un attimo prima, Tony aveva chiesto a  Nello, il figlio di Gino,  di mettere nel lettore cd il  nuovo di Andre Williams: “Hoods & Shades”, che gli avevo passato. 


La musica quietò definitivamente gli animi. Cappe&Ombre è un disco di blues paludoso, con quel pizzico di follia che non guasta mai. Cantato, ma anche parlato, dalla voce espressiva e profonda dell’autore che sciorina un blues  sghembo come il fil di ferro. Le canzoni sono  scolpite da riff di chitarra “mojo”, a volte amplificati con il wha wha, che sono un piccolo piacere. La combriccola che lo accompagna è di tutto rispetto. Jim White (DirtyThree), Greasy Carlisi (Robert Gordon), Jim Diamond (Dirtbombs) e Don Was suonano perfetti per un pomeriggio al bar, se ve lo fanno mettere.

Le ore erano volate in un botto, lasciammo Ang  che erano ormai le dieci della sera. Sotto casa, non appena sceso dall’auto, il professore tirò fuori dalla borsa che teneva a tracolla un cd. “Prendilo,  è per te, Bart”, disse, “me lo ha spedito mia madre” e me lo porse con una gentilezza che mi commosse. Guardai l’involucro e lessi il nome Drew Nelson. Non mi diceva nulla ma lo accettai di buon grado. Quando rientrai zia  Amalia dormiva sul divano con la testa appoggiata sulla spalla del signor Santino, anche lui sprofondato nelle braccia di Morfeo. Spensi la tele e pure il lampadario, accesi la lampada del comò e stesi sui micetti un piumone.

Devo tornare sulle strade secondarie, quelle battute dal vento tignoso, su quei paesaggi di polvere e nulla, rimuginai. La prima canzone che apre Tilt -A - Whirl, il cd di Drew Nelson,  si intitola Promised Land, proprio come quella là, e tira un rock che ti ritrovi per un attimo con il piccolo uomo di Asbury Park sulla radio della macchina a scolarti la vita in una scuffia di luce. Ci sono dentro questo disco tutte quelle cose con cui ho sempre fatto i conti, la gente senza lavoro, i veterani di guerra lasciati a marcire da soli sullo sfondo di una città troppo crudele per prendersene cura. Amanti abbandonate, immigrati clandestini. Tutti senza una direzione. Anime perse che nell’ombra svaniscono, ma tenute insieme, questa volta, da un manipolo di canzoni belle e vere, cantate da una voce sincera, forte e convincente,  che vanno a scavare sotto la pelle, abbigliate con chitarre elettriche ed acustiche puntellate da un organo che è un brivido profondo. Canzoni che hanno fatto grande la provincia americana partendo dal primo Bruce e finendo allo Steve Earle di memoria rock. 

St. Jude, una accorata supplica al santo amico della gente disperata, amplifica la nostalgia per quei sentieri per pochi, delle insegne dei motel, di quell’umanità che, come per miracolo, è ancora in piedi, nonostante il fallimento della propria vita. Adesso, ho con me la musica per prendere tutte le deviazioni volute, tra visioni e turbamenti. Il treno del rock  si è nuovamente fermato proprio davanti casa mia e i miei fantasmi sono tutti lì, ammucchiati sulle carrozze,  e mi stanno facendo strada, un'altra volta, verso la direzione dei miei sogni. E mi sento come un debuttante dai capelli grigi.
 Bartolo Federico - Febbraio 2012







2 commenti: