martedì 21 gennaio 2014

Polvere & Diamanti(e qualche stella del rock’n’roll)



Quasi estate. Il giorno con il passare delle ore si era fatto sempre più caldo. Cercavo di starmene tranquillo seduto su quella veranda da dove potevo osservare il mare. Rimisi il libro sul tavolino e rientrai in casa, stappai una birra e sistemai un disco sul piatto dello stereo. “Glamour Girl” di “T-Bone Walker” mi esaminò con attenzione, mentre guardavo gli ultimi raggi di sole pieghettare le onde. La mia mente vagava senza sosta nel tentativo di rimettere insieme il filo degli ultimi eventi. Il mare era piatto e lucido e non c’era un alito di vento. La notte stava giungendo e tutte quelle stelle sparse nel cielo dicevano che la bella stagione era ormai approdata. Anche se stavo attraversando un momento difficile, mi ripetevo che non dovevo farmi prendere la mano, che quei sogni strani che mi scuotevano e mi turbavano fin nel profondo sarebbero andati via, prima o poi. Come ogni cosa. Era da mesi che durante il sonno mi svegliavo di continuo e, quando non riuscivo a riaddormentarmi, aspettavo con gli occhi sbarrati l’alba. Quella notte, però, aveva ringhiato da subito le sue intenzioni e continuò a tormentami la mente. Non c’è la feci più a rivoltarmi tra le lenzuola, mi alzai, infilai le ciabatte blu, la camicia di jeans, e andai in cucina. Tirai fuori dal frigo la bottiglia del latte, ne versai un bicchiere abbondante, ci misi dentro due cucchiaini di zucchero e mi accomodai sulla veranda.Era una notte strana, impregnata d’immagini chiare e inumidita da bagliori solitari. Guardai per un pezzo il mare e il cielo, e anche quella luna che sembrava arrivata lì per caso. Era come un urlo quel brandello di memoria che non voleva andar via. Di fronte a me avevo case scolorite dal sole e dalla penombra, e c’era poca gente intorno. Soffiava una leggera brezza, afferrai la Martin DX1 piena di cicatrici che era appoggiata sul muro del terrazzino, e strimpellai.

A volte sei felice. A volte piangi. Metà di me è come l’oceano e metà è cielo. Tu hai un cuore davvero grande che potrebbe schiacciare questa città. Ed io non posso arrendermi sempre. Tutti i muri cadono. Talune cose sono già finite. Altre cose vanno avanti. Tu porti una parte di me, una una parte è già andata via  (Walls - Tom Petty)



            Non puoi farci niente. Le cose accadono e il mondo continua ad andare avanti, che tu lo voglia o meno. Tanto vale prendere la vita con distacco. L’esatto opposto del rock’n’roll. Non avevo programmi a breve termine, ma non serviva farne, in modo da non alimentarmi di altre delusioni. Mi ero rintanato in quella casetta che mi avevano lasciato i miei genitori e che fino ad ieri non avevo mai sfruttato a dovere. Ma volevo fare tabula rasa di molte cose e quello era di sicuro il luogo più adatto. 

La notte era buia ma il cielo era blu. Il treno di ghiaccio correva lungo la valle. Il rumore di un urto e qualcuno che urla. Tu potresti avere udito ciò che io ho appena visto. Chi ami, tu? Chi ami, tu? (Who do yo love? - B. Diddley)



            Il “simpatico contafrottole” (questo è più o meno il significato in slang del nome) Bo Diddley è uno di quei personaggi che ha seminato molto ottenendo il minimo sindacale. Di lui non si ricorda quasi mai nessuno, perfino i testi di musica lo bistrattano e lo liquidano frettolosamente. Come fosse una rogna. Probabilmente paga per avere cambiato spesso panni e identità musicale, e non si sa come catalogarlo. Ma, questo è certo,  la storia del rock senza le sue canzoni avrebbe avuto un altro corso. E tra il 1955 e il 1962 che Ellas McDaniel in arte Bo Diddley, nome impostogli da Leonard Chess quando incise il suo primo 45 giri , scrive tutti i suoi capolavori caratterizzati da un ritmo primitivo, ma anche brutalmente gioioso. I’m a Man, Road Runner, Mona, Story Of Bo Diddley, Cracking Up, Nursey Rhyme, Diddley Daddy , Who Do You Love sono canzoni che verranno riprese da Jimi Hendrix, Muddy Waters, John Fogerty, Stones, Quicksilver, Doors, e un'altra miriade di artisti. Il creolo Diddley, nato nel Mississippi nel 1929, fu adottato dalla famiglia McDaniel all’età di cinque anni. E come è successo a quasi tutti quelli baciati dal talento, la chitarra che gli fu regalata dalla sorella quando compì dieci anni la imparò a suonare da solo. E a tredici era già all’angolo della Langley Avenue con un suo complessino.



            La mattina mentre andavo al supermercato notai i tanti bar che avevano aperto nella zona e le case di legno dei contadini diventate ormai grigie per effetto della salsedine. Comprai della pasta, uova, biscotti artigianali, del latte, un pacco triplo di caffè e delle verdure. Presi anche qualche birra e una bottiglia di vino. Il J&B lo presi anche ma poi lo riposai nel suo scaffale. Rientrai e mi feci una doccia, restandomene un bel quarto d’ora seduto sotto una cascata di acqua tiepida. Mi lavai i denti e mi rasai abbastanza velocemente. Dopo, mentre mi rivestivo, osservai dalla finestra del salone la spiaggia ancora vuota. Preparai il caffè, ascoltando una cassetta degli Zeppelin che avevo registrato anni prima per portarmela in macchina. “Polvere e Diamanti” lo avevo chiamato quel nastro, perché a quel tempo avevo l’abitudine di dargli un titolo, ai miei nastri. Questa è la sequenza dei brani sul lato A: “Travelling Riverside Blues", “Ramble On”, “Immigrant Song”, ”Going To California”, “When The Levee Breaks”, “The Rain Song”, “Battle Of Evermore”, ”Over The Hill And Far Away”, “Misty Mountain Hop”, “Babe I'm Gonna Leave You”. Dovevo cercare la regolarità, pensare dei pensieri normali, non potevo seguitare a essere un disadattato, un cavaliere errante, uno che rincorreva ancora quegli spiriti furiosi che mi danzavano nella testa. Uscii di casa e feci una lunga passeggiata sulla spiaggia che tra non molto si sarebbe animata da decine di famiglie con bambini e ombrellone a seguito. Mal sopportavo l’ipocrisia della gente e quelli che non si volevano annoiare mai. Conoscevo l’iniquità dell’animo umano, e la normalità mi aveva fatto sempre paura.



            I Quicksilver Messanger Service nacquero per volontà di Dino Valenti, un folk singer già affermato della bay-area. John Cipollina e Terry Dolan lo incontrarono nel 1963. Valenti innamorato della musica dei Jefferson Airplane, Beatles e Grateful Dead, si era stancato di suonare da solo e stava cercando di mettere su una rock-band. Dal momento che era alla ricerca di musicisti, quei due tipi davvero bizzarri facevano al caso suo. Dino spiegò quale era la sua idea al gruppo, che voleva includere anche due ragazze al tamburino e che si dovevano anche vestire in maniera eccentrica. Stabilirono di iniziare il giorno dopo. Johnny e Terry si portarono appresso Jimmy Murray e Gary Duncan, due loro amici. Quando arrivarono, tutto era pronto, gli strumenti, il manager, la sala. Mentre aspettavano che arrivasse Dino, si fecero una pasticca di lsd. Dopo una lunga attesa, finalmente, arrivò una ragazza che disse che Dino era stato arrestato, che lo avevano beccato mentre fumava marijuana, ma che sarebbe stato rilasciato tra qualche giorno. Passarono i mesi e Dino non arrivava, dato che era ancora in prigione. Nel frattempo i ragazzi conobbero David Freiberg, un amico di Valenti, anche lui uscito da poco di prigione e che suonava la dodici corde in modo eccellente. Ma dal momento che David voleva suonare il basso dopo varie e animate discussioni fu accontentato. I Quicksilver erano nati. Dino Valenti uscì dal carcere dopo un anno e mezzo, ma ormai non c’era più posto nella band. Nel marzo del 1969 esce Happy Trails. Il disco, eccetto “Maiden Of The Cancer Moon”, è il risultato di alcune registrazioni live fatte nel 1968 nei due teatri Fillmore East e West di San Francisco, ed è la prova di quanto fosse emozionante e travolgente la Quicksilver Messanger Service dal vivo. La prima facciata è composta da una lunga suite di venticinque minuti che prende spunto da Who Do You Love di Bo Diddley per poi diventare, strada facendo, qualcos’altro, in un impasto musicale fantastico. La seconda facciata si apre con Mona sempre di Bo Diddley e, passando per la strumentale Maiden Of The Cancer Moon, si finisce con Calvary, un pezzo scritto da Gary Duncan. C’è di tutto intinto in questo disco, svisate, arpeggi, chitarre distorte e laceranti, tocchi di acustica e improvvisazione. Un vero autentico trip sonoro. Uno dei momenti migliori del rock californiano degli anni sessanta.



            Stavo cercando di adattarmi alla situazione ma ero sempre animato da una profonda sfiducia verso il genere umano. Mi sedetti in un bar sotto un pergolato e ordinai da bere. Dal cestino poggiato sul tavolino presi dei fazzolettini e mi asciugai il sudore sulla fronte. Mentre aspettavo osservai dei ragazzini che indisturbati giocavano al videopoker. Il cameriere mi allungò il bicchier gelato con la vodka alla pesca che mandai giù in un botto, solo per il gusto di sentirmi le budella bruciare. Non mi andava d’ingannare nessuno, ma ogni domanda che mi facevo restava senza risposta, e questo non era un buon modo per andare avanti. Pensieri cupi si accavallarono nella mente mentre rientravo a casa. Mi fermai sotto una palma ormai morta, perché attaccata dal punteruolo rosso, un insetto che al suo interno compie tutto il suo ciclo vitale, e mi accesi una sigaretta. Il nome The Byrds in americano non ha alcun significato razionale, invece il suono dei Byrds rimane ancora oggi un mistero. Innovatori, eccentrici, geni, alieni chi lo sa. Forse solo musicisti. 

“Se vuoi diventare una stella del rock&roll, ascolta quello che devo dirti, prendi per un po’ una chitarra elettrica ed impara a suonarla, e quando i tuoi capelli sono lunghi abbastanza e hai i blue jeans ben attillati, allora sei a buon punto ed è tempo che tu vada giù in città dove troverai un agente. Vendi la tua anima alla compagnia discografica che aspetta di vendere la sua merce di plastica. In una settimana o due, se c’è la farai, le ragazze ti prenderanno da parte, il prezzo che tu hai pagato per la tua ricchezza e la tua fama è un gioco strano. Sei un po’ pazzo, il denaro che ti arriva e l’urlo della folla..non scordare chi sei: tu sei una stella del rock & roll.”(So you want to be a rock and roll star),



            Nell’estate del 1964 Jim McGuinn stava suonando al Troubadour di Los Angeles e si stava divertendo improvvisando imitazioni delle canzoni dei Beatles. Seduto tra la folla c’era Gene Clark, un ragazzo apache del Missouri a cui quell’esibizione fece venir voglia di formare una rock’n’roll band. The Jet Set, con al basso David Crosby, incisero due brani sulla raccolta Early L.A., pubblicata dalla casa discografica Elektra.



            I nostri politici sono dei pazzi invasati. Finanziano i conflitti solo per la loro avidità di denaro. Ma li avete mai visti combattere una guerra a questi cacasotto? Mi sono nascosto nel buio ascoltando “You Don’t Love Me Yet” cantata da Rocky Erickson. Per non sentire la fredda indifferenza che avvolge la morte.  McGuinn, Clark e Crosby, giusto per affinare l’intesa, si esibirono in qualche locale dove reclutarono un virtuoso del mandolino, un certo Chris Hillman, e un batterista alla sua prima esperienza, Michael Clarke. Dopo un periodo in cui si chiamarono The Beefeaters, il gruppo prese il nome di The Byrds. Con la produzione di Jim Dickson incisero ai World Pacific Studios l’album Preflyte, che vedeva composizioni scritte da Clark McGuinn e Crosby. Per la prima volta una band di rock eseguiva canzoni di musica folk e questo cambiò le cose per sempre nel rock’n’roll. “Mr Tambourine Man” è il brano di Dylan che li avrebbe, da lì a breve, catapultati nel mondo delle rockstar. La notte del 20 agosto 1965 la FM’s di L.A., San Francisco e San Diego iniziarono a trasmettere le loro canzoni due volte ogni ora. Ho avuto sempre un debole per Clark,  uno  che voleva starsene lontano dal caos e che non voleva essere una rock’n’roll star. La sua Here Without You è una delle mie canzoni preferite. 

Il giorno serve a farmi sentire solo. Di notte non posso far altro che sognarti. Ragazza, sei ogni istante nella mia mente. E’ così difficile starmene qui senza di te. Parole nella mia testa continuano a ripetere quello che hai detto quando stavo con te. Mi chiedo se sia vero che tu provi le stesse cose. E’ così difficile, qui, senza di te, stare qui, senza di te.”



            Il pomeriggio la strada sterrata vicino casa era inondata da un sole incredibilmente luminoso. Il ventilatore sul tre piedi ruotava cigolando. Quando ci stavano i miei genitori era una casa aperta a tutti. Per questo loro ci tenevano così tanto. Gli era costato molto economicamente, ma ne era valsa la pena. Io ero stato il prescelto dei tre figli, perché a mano mia non sarebbe mai stata venduta. In tutte le stanze c’era ancora qualcosa che parlava di loro. Quella notte avevo dormito molto e mi sentivo migliore. Era un pomeriggio caldo e senza particolari pretese. La vita non mi aveva fabbricato felice.  E in qualche modo sarei sopravvissuto.



Bartolo Federico


2 commenti:

  1. Sempre un piacere leggere e rileggere i tuoi scritti che non hanno bisogno di nessun commento tanto sono perfetti ed intriganti...
    Ti stringo forte per il regalo che mi avete inviato...lo rileggerò ancora nelle mie notti insonni...
    Grazie dal più profondo del cuore!+++++++

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  2. Nella, è invece te che ringrazio per la tua generosità.che mi fa bene al cuore.
    io sono solo un pazzo confuso da questo mondo di merda.un abbraccio

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