lunedì 23 giugno 2014

Brividi Assassini



Ognuno è quello che è per sempre. Anche l’andare del tempo non è che ci cambi più di tanto. Si smussa qualche asprezza, qualche angolo oscuro, ma è poca cosa. In un giorno qualunque, sul treno delle sette ci ero salito agguantando l’ultima corsa del turno di notte del pontone. Avevo attraversato prima dell’alba quel braccio di mare che separa le due sponde in compagnia di marinai che avevano l’aria stanca e assonnata e anche lievemente scocciata, come i suoi passeggeri, d’altronde. Una delle ultime occupazioni rimaste nell’area dello stretto di Messina, per non finire a fare l’emigrante, o diventare uno dei tanti rivenditori ambulanti sparsi per la città. Certo occorreva dedicarsi ore, giorni, mesi, anni, a leccare il culo all’armatore, o a quel politico di sinistra (!), che possiede le quote di maggioranza della società navale, per potere ottenere anche un posticino da mozzo. Ma dalle mie parti la differenza tra vivere bene e vivere male non è una questione di meriti e competenze, è una faccenda privata che dipende dalla magnanimità di queste persone. Un bacino di voti e clientelismo, usato a piacimento da queste famiglie, che potrebbero benissimo vivere in una telenovela sudamericana. Pezzi grossi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo, a protezione dei loro enormi interessi, in una delle città più crudeli al mondo. Colpa della visuale egemonica che abbiamo al sud. Mai modificare lo stato delle cose, potrebbe essere una iattura e se gli effetti peggiorano la nostra esistenza fa niente. Vai a capire come marciano certe congegni nel cervello umano. 


Qualcosa però alla fine era cambiato il vecchio sgangherato e polveroso “Mystery Train”, l’espresso con cui avevo attraversato l’Italia di notte in cerca di lavoro, era stato sostituito da un convoglio signorile, ma anche scomodissimo per le mie gambe. Si viaggia, adesso, solo di giorno e con il vagone ristorante ed il servizio bar a disposizione. Anche se il caffè era cattivo, e il prosciutto nei panini rinsecchito, si poteva dire che ci eravamo evoluti. Seduto su quel treno sonnecchiavo e non sapevo se ce l’avevo ancora quel lavoro da commesso viaggiatore. Facevo parte di quell’umanità che quando si mette la giacca per uscire di casa si porta con sé un bel sorriso, pure se si è tristi e sconsolati, come un blues cantato da Skip James. Un lavoratore senza diritti, e senza tutele sociali. Uno che si doveva arrangiare come poteva. Reso invisibile da un sistema che, quando resti senza alcun incarico, non c’è nessuno che ti viene a cercare. Neanche per chiederti come stai.


                ”Il treno su cui viaggio è lungo sedici vagoni. Il treno su cui viaggio è lungo sedici vagoni. Beh, questo lungo treno nero porta la mia bambina e se ne è andato via” (Mystery Train).



Anche Jerry Lee Lewis nel 1959 fu lasciato da solo ad affondare. Mentre era in tour in Inghilterra, si venne a sapere che aveva sposato una sua cugina di tredici anni e fu accusato di incesto e corruzione. Ma quel matrimonio era perfettamente regolare nella cultura del sud, abituata ai matrimoni precoci e consanguinei. Lo scandalo, tuttavia, giunse anche in America e da quel momento in poi le radio non passeranno più i suoi dischi, le televisioni lo ignoreranno e il grande pubblico lo abbandonerà. Accadde nel periodo in cui Jerry si stava lasciando dietro le spalle l’eredità contadina con cui era cresciuto. Quel fragore improvviso farà sì che quando tornerà sulla scena la sua musica non sarà più quel misto di blues, gospel, boogie, western swing, country e jazz che suonava sin dal’età di quindici anni. Lo stesso Sam Phillips, il proprietario della Sun Records diceva che anche “se sei un nemico giurato del rock’n’roll, in Jerry Lee trovi qualcosa che ti interessa”. Scommetto l’ultimo soldo che ho che non c’è un imene intatto in questa stanza (Big Legend Woman), cantava ghignando il killer del rock’n’roll, scombinandosi i capelli e pestando i tasti del suo pianoforte. Era come avergli sparato un colpo in piena fronte a quella frotta di teen agers del ceto medio americano che comprava i dischi di rock’n’roll. Ragazzini che si eccitavano ascoltando canzoni come Breathless, o Great Balls Of Fire, con tutto quel dire e non dire sul sesso. Ma dov’è finito quel rock che parlava ai giovani e raccoglieva le loro urgenze? 


Dopo anni di dure lotte,  sembra un buon padre di famiglia, che non è convinto più di vivere nel desiderio di un eterna giovinezza. E non si reinventa con un nuovo maquillage, magari continuando a razziare a mani basse, lì dove è possibile trovare linfa vitale, suonando forte, ambiguo, sfuggente, e trasgressivo. Il rock’n’roll è musica irrispettosa, corrotta, dove è stato possibile far confluire tutto. Una zona franca che ha da sempre mescolato le carte, rigenerandosi. Un bastardo, depravato, privo di amore per le radici della sua stessa esistenza. Oggi, però, appare smorto, moralizzatosi, come fosse musica classica o per tradizionalisti con occhi stanchi e i visi rugosi. Altre volte gli era capitato di assopirsi, ma una nuova ondata di insolenti figli di puttana aveva scavalcato e spazzato via tutto, dando spazio a nuove sfide. Forse sarebbe utile che il rock’n’roll viaggiasse nuovamente senza mappe, selvaggio e incerto, ma soprattutto sprovvisto di navigatore. 


                Stacker Lee ha sparato a Billy The Lion per un cappello Stetson da cinque dollari. Questo uomo cattivo oh,il crudele Stacker Lee”(Traditional)



C’è ne sono a bizzeffe di Lee nella musica americana, tutti provenienti dal sud degli States. Un nome comune come Ciro, o Tano, nel meridione d’Italia. Gente fiera di appartenere all’ideologia sudista e anche di accettare i pregiudizi e gli insulti razzisti con cui sono appellati. John Lee Hooker, Billy Lee Riley, Moral Lee Boggs, Jeffrey Lee Pierce sono solo alcuni di quei musicisti. Stacker Lee, invece, è stato un bandito dentro una canzone, in una storia americana che parla di brutalità, sesso, odio, ma anche di libertà. Un ritratto del carattere della gente di colore del sud. Un uomo tosto come il diavolo che uccise Billy, perché fu così stupido da dirgli che stava barando. Gli sparò, come cantò Johnny Cash in Folsom Prison Blues, solo per vederlo morire. E Johnny, si sa, non ha mai detto bugie. La ragazza che mi sedeva di fronte leggeva una rivista per sole donne e ascoltava musica con l’auricolare. Profumava di Chanel n°5, e portava grandi occhiali neri da vista griffati. Di tanto in tanto, si toccava i capelli con la mano attorcigliandoseli tra le dita, e mi guardava di squincio. Era una di quelle sempre in ordine, lo si notava da come era vestita e dai suoi atteggiamenti. Siccome non avevo nulla da fare, mi chiesi fra me e me se mi si sarebbe drizzato l’uccello con una tipa così. Si è liberi quando si può vivere nella propria terra, e non quando si è costretti a fuggire. I migranti che arrivano su barconi fatiscenti sono uomini costretti a scappare perché qualcuno si sta semplicemente prendendo l’Africa, e lì non c’è li vuole più. I nuovi mercanti di uomini si stanno facendo solo dello spazio per poi potersi accomodare liberamente e finire di rubar loro la terra. La mafia europea paga milioni di euro affinché questi uomini e donne vengano accolti e tenuti a bada nel migliore dei modi. Lo devono fare sapere agli altri africani, che qui non va poi così male. C’è un nuovo schiavismo in atto che avanza nel silenzio più assordante. Che fa gelare il sangue nelle vene.


                “In piedi sulla forca la testa ben dritta. Lo uccisero alle dodici. Erano tutti felici di vederlo morire”.
 

Mississippi John Hurt diede l’epigrafe più spietata, ma anche la più verosimile, alla fine di Stacker Lee


Era pura energia, Jerry Lee Lewis, con quel suo pianoforte suonato in modo elementare, ma appariscente e acrobatico, che risentiva pesantemente dell’influenza della musica nera. Una volta gli diede fuoco per impedire a Chuck Berry di suonare dopo di lui. Un rock’n’roll che stordiva e che si tuffava contro ogni limite. Un boogie woogie scoccato e glissato con la mano sinistra del diavolo. Quando Sam Phillips lo scoprì, nella sua scuderia erano già arrivati Elvis, Carl Perkins, Johnny Cash, Roy Orbinson, Gene Vincent, Vincent Conway, Billy Lee Riley, Ma Jerry era davvero un’altra cosa rispetto a tutti gli altri. Uno che era riuscito a formare un suo personale linguaggio sonoro, una sua personalità ben distinta che lo differenziava dall’essere un mero imitatore di Presley.  “Dai baby qui c’è da scuotersi da cima a fondo, dai baby quello che fai va bene” (Whole Lot Of Shakin’ Goin’ On). La carriera di Jerry si spezza nel momento in cui il rock’n’roll è attraversato da una serie di disgrazie e lutti. Eddie Cochran muore nello stesso incidente in cui Gene Vincent resta invalido, Buddy Holly scompare in un sciagura aerea, Chuck Berry viene imprigionato, Elvis parte per il servizio militare. Il killer resta il solo durante gli anni sessanta a suonare con rabbia e passione quella musica del diavolo, peccaminosa che fa dannare l’anima. Io ho il diavolo dentro! Se non l’avessi, sarei un cristiano, blaterò un giorno ubriaco Jerry Lee, durante le registrazioni di alcune sessioni in studio alla Sun Record.


Avrei voluto essere in Messico, con un sombrero in testa a bere tequila ascoltando La pistola y el corazón dei Los Lobos. Ma la fortuna, come la sfortuna, mi aveva sempre evitato nei loro estremi, quindi restavo solo uno sfigato, che ce la metteva tutta per sopravvivere in questo mondo, ma è sempre più difficile di quanto si creda. Avevo aperto le finestre e il temporale aveva ripreso a brontolare dietro le montagne, mentre il vento di scirocco spazzava l’aria. Stiamo dando tutto per scontato, anche la nostra vita. Era sabato, quando la gente va a ballare e se la spassa. Ho messo un disco sul piatto, cosa che non facevo da tempo immemore. La musica ha preso ad strepitare. “Mi scuoti i nervi e mi fai ballare il cervello. Il tuo modo di amare fa impazzire la gente accidenti che emozione. Dio del cielo, grandi palle di fuoco (Great Balls of Fire). Non faceva freddo, guardai fuori la finestra e andai a riempirmi il bicchiere. Due giri di ritornello ed ero già sbronzo come una scimmia. Tutto finisce in niente, anche la giovinezza è finita lontana. Ma l’ho amata dal primo giorno che l’ho incontrata con quell’aria timida. Mi stavo facendo trascinare dalla corrente che non è un buon modo per andare lontani. Ma non mi aspettava nessuno. Ascoltavo del rock’n’roll mentre lì fuori era già un massacro. 


Bartolo Federico


2 commenti:

  1. Mi chiedo ogni volta che ti leggo o rileggo attraverso il tuo bellissimo libro, come puoi avere la capacità così naturale di agganciare storie di vita vissuta o meno nel reale o meno, con pezzi di altre vite appartenenti a monumenti del rock , in maniera così perfetta , così ben incastrata da essere sempre nati in questa maniera..
    Semplicemente adorabile!

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  2. Grazie Nella. Stammi bene ti raccomando.

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